America-Cina

2022-08-13 06:16:39 By : Ms. Ella Lee

Oggi grande spazio al raid dell’Fbi nella villa di Donald Trump: non era mai successo nella storia americana che i federali andassero a perquisire la casa (e la cassaforte) di un ex presidente. Poi andiamo in Ucraina (con due missili sulla testa), a Taiwan (tra scogliere e proiettili) e infine ci spostiamo in Kenya, dove in queste ore la gente è in fila per un voto molto importante. In fondo, un raccontone sul Dream Team più sognante del basket e un saluto alla donna che ha fatto sognare (ballare) John Travolta (e il mondo intero). Buona lettura. La newsletter America-Cina ed è uno dei tre appuntamenti de «Il Punto» del Corriere della Sera. Potete registrarvi qui e scriverci all’indirizzo: americacina@corriere.it.

Stando alle prime indiscrezioni pubblicate dai media americani, ieri sera, lunedì 8 agosto, l’Fbi cercava documenti classificati nella residenza di Donald Trump a Mar-a-Lago in Florida. Non ci sono ancora, però, conferme ufficiali e non è quindi chiaro sulla base di quale mandato giudiziario si siano mossi gli agenti federali.

Davanti al portone di casa di Trump a Mar-a-Lago in Florida

Trump è al centro di almeno due filoni distinti di indagine . La Mesi fa gli Archivi Nazionali avevano segnalato la scomparsa di un’ingente quantità di materiale sparito dalla Casa Bianca. Poco prima della fine del suo mandato, Trump avrebbe trasportato una quindicina di scatoloni nella sua residenza. Il ministero della Giustizia non ha commentato. Non sappiamo ancora, quindi, se ci sia una qualche relazione con l’inchiesta avviata dall’Attorney General Merrick Garland sulle possibili responsabilità penali collegate all’assalto di Capitol del 6 gennaio 2021. Il team dell’Fbi ha forzato una cassaforte e avrebbe portato via parecchio materiale. Anche se uno dei figli di Trump, Eric, aveva twittato: «la cassaforte era vuota». In ogni caso è la prima volta che le forze dell’ordine perquisiscono la dimora di un ex presidente. Un’iniziativa che aggiunge altro astio in uno scontro politico a livelli già preoccupanti. È stato lo stesso Donald Trump a dare la notizia, verso le 19 di ieri sera. Poi l’ex costruttore newyorkese ha diffuso un lungo comunicato in cui sostiene di essere un perseguitato politico: «Questi sono tempi oscuri per la nostra nazione, mentre la mia bella casa, Mar-A-Lago a Palm Beach, Florida, è attualmente sotto assedio, occupata da un folto gruppo di agenti Fbi. «Non era mai successo niente del genere a un presidente degli Stati Uniti. Visto che ho collaborato con le autorità, questo raid non annunciato non era necessario né corretto». Trump sostiene che i suoi avversari abbiano «strumentalizzato» il sistema giudiziario: «è una manovra, una persecuzione, un attacco da parte dei democratici della sinistra radicale che non vogliono che mi candidi per le presidenziali del 2024, specie dopo aver visto i recenti sondaggi. Faranno di tutto per fermare i repubblicani e i conservatori alle imminenti elezioni di midterm». Trump è al centro di almeno due filoni distinti di indagine. La procuratrice generale dello Stato di New York, Letitia James da mesi conduce un’inchiesta sugli affari finanziari della holding trumpiana. Il sospetto principale: i vertici aziendali avrebbero gonfiato il valore degli asset per ottenere più facilmente finanziamenti bancari. Ma naturalmente tutt’altro peso ha l’iniziativa assunta da Garland. Sotto esame sono le manovre di Trump per rovesciare il risultato delle elezioni del 2020 e per fomentare l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Nei giorni scorsi sono stati convocati davanti a un «gran jury federale» (un gruppo di cittadini con la supervisione di un giudice) alcuni dei collaboratori più stretti di Trump proprio nelle settimane tumultuose che seguirono la sconfitta elettorale del novembre 2020. Tra i primi a comparire c’è John Eastman, il giurista che convinse Trump ad attaccare pubblicamente l’allora vice presidente Mike Pence, perché non si era rifiutato di ratificare la vittoria di Joe Biden, nella seduta congiunta del Congresso il 6 gennaio. Un altro testimone importante appena ascoltato è Pat Cipollone, il capo dell’ufficio legale della Casa Bianca. Vedremo se esiste un collegamento tra queste deposizioni e il blitz dell’Fbi a Mar-a-Lago.

Cosa cercavano gli agenti dell’Fbi a Mar-a-Lago? Prove che Trump ha tramato per sovvertire l’esito delle elezioni presidenziali 2020 o semplicemente documenti ufficiali della Casa Bianca illegalmente sottratti dall’ex presidente agli archivi federali e raccolti nella sua residenza privata? Si è parlato di 15 casse di documenti , ma i federali si sarebbero concentrati soprattutto su quelli contenuti in una cassaforte . L’incriminazione di Trump con l’accusa di aver violato la Costituzione rimane una possibilità, ma alcuni giuristi ritengono anche possibile che, senza arrivare ad accusarlo di aver tentato un golpe, l’ex presidente possa perdere la possibilità di candidarsi di nuovo alla Casa Bianca perché colpevole di un reato meno grave ma, comunque, penalmente rilevante: aver trafugato, occultato o distrutto di documenti federali .

Una norma poco conosciuta del Codice federale , la sezione 2071 del titolo 18, afferma che chi «volutamente e illegalmente nasconde, rimuove , mutila, falsifica o distrugge» documenti federali commette un reato penale punibile con tre anni di carcere e l’interdizione dai pubblici uffici. Vari ex collaboratori di Trump hanno parlato della sua abitudine di distruggere documenti che dovevano invece restare conservati negli archivi. Un libro della giornalista Maggie Haberman in uscita negli Stati Uniti racconta in modo dettagliato dell’abitudine di Trump di fare a pezzi i documenti, gettandoli, poi, nella tazza del water fino ad ingolfarlo (foto sopra ). Nei giorni scorsi sono stati addirittura pubblicate foto di gabinetti presidenziali con pezzi di documenti che si vedono nel fondo del wc. Basterebbe questo per squalificare Trump? La cosa è assai dubbia. Politicamente l’ex presidente già usa l’incursione dell’Fbi per dipingersi come un perseguitato dai democratici. Giuridicamente non è certo che una simile norma possa essere applicata a un’elezione presidenziale . Nel 2016, ad esempio, quando fu Trump a chiedere la squalifica di Hillary Clinton, accusata di aver occultato molte email quando era Segretario di Stato, la cosa non impedì alla ex first lady di candidarsi. Una condanna potrebbe, comunque, rafforzare la corrente dei repubblicani che, scossi anche dalle rivelazioni sulle responsabilità dell’ex presidente nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, preferirebbero lasciare The Donald a giocare a golf a Mar-a-Lago e inaugurare l’era del «trumpismo senza Trump» .

Tre punti sulla perquisizione della residenza di Trump in Florida.

L’Fbi fa il suo mestiere, indaga, verifica, segue gli ordini. Ma qualsiasi mossa sarà sempre vista da Trump e dai suoi sostenitori come un’azione «politica». In breve: gli agenti agirebbero per favorire gli avversari. I rapporti tra il miliardario e gli apparati di sicurezza non sono mai stati buoni. Intemperanze e insulti di The Donald, sospetti, veleni. Per i trumpiani, i federali sono l’establishment. L’agenzia investigativa è stata risucchiata nella lotta tra i democratici e repubblicani. Per le sue inchieste – c’è sempre la ferita aperta dell’assalto al Congresso – e perché ognuno la tira per giacca.

Il Presidential Records Act prevede che tutti i memo, le lettere, le note e il resto delle comunicazioni scritte relativi ai compiti d’ufficio di un presidente siano trasferiti all’Archivio nazionale alla fine del mandato. Lo scorso gennaio si è scoperto che Trump aveva tenuto per sé quindici scatoloni di questi documenti (molti dei quali top secret, come alcune lettere del dittatore nordcoreano Kim Jong-un), poi restituiti dallo stesso tycoon. Trump a più riprese si è rifiutato di consegnarle all’Archivio nazionale.

Il ministro della Giustizia Merrick Garland

Quello della notte scorsa è il primo caso di perquisizione da parte dell’Fbi in una residenza di un ex-presidente americano. L’attuale direttore del Bureau , Christopher Wray, fu nominato nel 2017 proprio da Trump . Una mossa simile deve essere autorizzata da un giudice, e molto probabilmente avere avuto l’approvazione ai livelli più alti del Dipartimento di Giustizia, incluso lo stesso ministro Merrick Garland (qui l’articolo completo).

È curioso come noi esseri umani cerchiamo rapidamente di sfuggire e rimuovere orrori e paure. Appena possibile in genere proviamo a dimenticarli. Vale per tutti nelle situazioni di guerra. I libanesi sono dei maestri della bella vita nel mezzo delle distruzioni: ai tempi della guerra civile affollavano i caffè e correvano sulle spiagge se soltanto si sparava un poco più distante. Nella Kiev assediata dalla morsa russa , quando Putin decise si ritirare le proprie truppe per concentrale nel sud-est, circa un mese dopo l’attacco del 24 febbraio, già a metà marzo riaprivano i ristoranti e la gente cercava di stare per strada sino all’ultimo minuto prima del coprifuoco alle 23. Oggi la vita notturna della capitale gira a pieno regime.

Così, ieri pomeriggio sono stati molto pochi gli automobilisti fermi alla stazione di servizio appena fuori Uman, sull’autostrada per Dnipro, a preoccuparsi dall’ululato delle sirene. Una limpida e assolata giornata di inizio agosto, tutto attorno campi di grano e girasoli sino all’orizzonte : perché credere all’allarme del personale e di due poliziotti che si sbracciavano per farci allontanare dalle pompe? Una mamma indugiava a scartare i gelati dei suoi due bambini, tre anziani non volevano alzarsi dal tavolino con i caffè appena serviti. Ma all’improvviso si sono uditi gli scoppi. Forti da fare tremare le vetrate, minacciosi per la loro origine misteriosa. Abbiamo alzato gli occhi al cielo e sopra di noi ecco le scie scure di due missili. E subito dopo, disegnate sull’azzurro, le nuvole nere provocate dall’impatto con i razzi della contraerea ucraina. «Probabilmente sono stati sparati dalla flotta russa del Mar Nero, forse mirano alle basi militari qui attorno», ha spiegato un tizio sulla trentina. Qualcuno ha anche individuato i rottami incandescenti che precipitavano al suolo. Quanto lontani? Non sappiamo, ma il grano ha iniziato a bruciare dietro le colline , forse a cinque o sei chilometri da noi. Si è saputo dopo che almeno due persone erano rimaste ferite dai frammenti , non ci sa se vi siano anche morti. Forse neppure loro credevano che la guerra li avrebbe investititi senza preavviso, in questa radiosa giornata estiva nelle campagne distanti almeno cinquanta chilometri dal fronte.

Gli ultimi due corpi sono stati trovati in un canale di scolo, pochi giorni fa. Ce ne sono una cinquantina che non hanno ancora un nome né qualcuno che li reclami. I cadaveri di Bucha sono diventati l’immagine chiave dell’orrore di questa guerra e dopo più di quattro mesi di lavoro gli esperti forensi sono vicini alla chiusura del cerchio. Significa che (forse) hanno finito di recuperare corpi dai boschi e dai canali attorno alla città, o di trovarli in qualche fossa. Il Washington Post riferisce il bilancio del momento: 458 corpi esaminati, 419 dei quali presentano ferite da arma da fuoco o segni di torture .

Mykhailyna Skoryk-Shkarivska , vicesindaco della città, dice che adesso per ognuno dei casi saranno aperti fascicoli di indagine , comprese le vittime che sembrano morte per cause naturali. Come la donna morta d’infarto in un rifugio accanto ai suoi tre figli mentre i russi bombardavano la sua casa: i bambini sono poi rimasti intrappolati là sotto con la madre morta . O come la signora anziana uccisa da un malore dopo aver visto la sorella cadere davanti ai suoi occhi. Difficile, dice il vicesindaco, considerare «naturali» morti come queste. Fonti di polizia , nelle scorse settimane, parlavano di «800 cadaveri ancora da identificare» nell’area di Bucha e dintorni. E finché non saranno completamente sminati tutti i terreni dei centri occupati a inizio marzo sarà difficile dichiarare chiusa la partita dei ritrovamenti di cadaveri. Per esempio a Irpin: nei giorni scorsi un ragazzo che stava facendo un corso per maneggiare i droni ha scovato – proprio mentre si esercitava con un drone – il corpo di un uomo, forse un soldato russo.

(Guido Olimpio ) Taccuino militare. Come previsto gli Usa hanno stanziato un nuovo pacchetto di aiuti militari per Kiev, valore un miliardo. Somma che porta a quasi 9 miliardi il totale dell’assistenza statunitense . Gli americani continuano a spedire munizioni per artiglieria e lanciarazzi a lungo raggio, ma anche materiale medico (blindati-ambulanze, equipaggiamenti). È noto che i due contendenti consumano quantità impressionanti di bombe a causa del duello di cannoni . Da Washington hanno confermato di aver dato agli ucraini missili anti-radar : c’erano speculazioni in questo senso dopo il rinvenimento di alcuni rottami.

Sono armi sofisticate e di solito usate da aerei. Non è chiaro quale sia la «piattaforma» adottata dalla resistenza. Un alto funzionario statunitense ha affermato che i russi hanno perduto 70-80 mila soldati , dato che include morti e feriti. Qualche settimana fa la Cia aveva ipotizzato circa 60 mila. Dati non verificabili . Ne avevamo già parlato, anticipando la mossa: la Russia ha lanciato un satellite spia iraniano, l’apparato servirà anche per monitorare il conflitto in Ucraina; questo sarebbe l’esito di un accordo tra i due Paesi alleati.

(Guido Olimpio ) Segnali allarmanti: le azioni violente aumentano negli Usa, con una crescita del 30 per cento degli omicidi . La situazione è critica in molte città anche perché la risposta della sicurezza non è adeguata. Per le seguenti ragioni: numero insufficiente di agenti; troppi casi ed episodi da affrontare; dipartimenti di polizia con posizioni scoperte a causa di dimissioni (paghe basse, impatto Covid, molti vanno in pensione).

Sono frequenti gli attacchi non collegati al crimine vero e proprio, ma sono sempre gesti dall’alto impatto sociale, che allungano le linee di difesa e comportano costi. Per esempio coloro che prendono di mira scuole o posti di lavoro .

(Samuele Finetti ) Ora spara anche Taiwan . Non verso le navi e gli elicotteri cinesi che da sei giorni si muovono lungo la linea mediana dello Stretto e i confini delle acque territoriali di Taipei: significherebbe guerra. Ma l’esercito dell’isola ha avviato da questa mattina una serie di esercitazioni militari in risposta a quelle di Pechino (ieri sono state rilevate 14 navi e 66 caccia cinesi in movimento vicino all’isola).

Un segnale di come le tensioni non accennino a diminuire. La conferma, del resto, arriva dal ministro degli Esteri di Taipei Joseph Wu: «Le esercitazioni militari di Pechino non sono che manovre preparative a una vera e propria invasione». Insomma, le rassicurazioni di Washington – ieri un ufficiale del Pentagono ha raccontato a Reuters che Pechino non ha intenzione di tentare una invasione nei prossimi due anni – non bastano al governo di Taiwan. Anche perché, oltre ai mezzi militari, la Cina sta lanciando «attacchi cyber , propaganda e repressione economica» su quella che da oltre settant’anni considera una «provincia ribelle», ha proseguito Wu. La domanda che ora si pongono molti esperti è una: quanto impiegherebbe l’esercito di Pechino a conquistare militarmente l’isola? C’è chi sostiene che per la conformazione geografica dei Taiwan, cinta da scogliere alte tra i 300 e i 600 metri , un’invasione sarebbe tutt’altro che semplice; e chi, al contrario, sottolinea che Pechino potrebbe agilmente superare gli ostacoli naturali grazie alla sua schiacciante superiorità militare (nel 1995 il bilancio della Difesa cinese era appena due volte quello dell’isola; oggi è venti volte maggiore). Il divario nella quantità degli armamenti fa concordare gli analisti su un punto: se scoppiasse un conflitto, a Taipei non rimarrebbe che la «tattica del porcospino »: chiudersi a riccio, cercare di difendersi il più a lungo possibile e aspettare gli aiuti degli alleati a stelle e strisce. Ammesso che arrivino.

(Michele Farina ) In questo momento in Kenya stanno votando: è una buona notizia. Elezioni del presidente e del Parlamento. I principali contendenti alla prima poltrona del Paese: William Ruto , 55 anni, attuale vicepresidente, e Raila Odinga , 77, eterno oppositore al quinto tentativo.

Il leader uscente, Uhuru Kenyatta , ha deciso di non forzare la Costituzione (come fanno molti colleghi) per candidarsi a un terzo mandato, e sostiene l’eterno rivale Odinga contro il suo numero 2 Ruto. Uno strano triangolo di ex (amici e avversari), incroci politici e ruggini personali. Odinga ha come vice Martha Karua , che si presenta come paladina anti-corruzione e «nonna della nazione» (si è cucita da sé il vestito per la campagna elettorale): Karua sarebbe la prima donna vice presidente nella storia del Kenya. Le capitali del mondo guardano con attenzione al voto di Nairobi (i risultati ufficiali nei prossimi giorni). Si aspetta un testa a testa. Sia Odinga che Ruto hanno fatto visita a Washington nelle scorse settimane, per rassicurare l’alleato americano che chiunque vinca si porrà sul solco della continuità diplomatica. Il Kenya è diventato negli ultimi anni un pilastro di relativa stabilità nell’Africa delle continue emergenze: la guerra in Etiopia, i golpe tra Sudan e Mali, l’eterna fragilità della Somalia, l’autoritarismo in Uganda e Ruanda, il caos sempre all’orizzonte in Congo. Kenyatta in particolare si è rivelato mediatore e interlocutore tanto a livello regionale (per il conflitto in Tigray) che internazionale: secondo gli osservatori è il leader africano con il quale più si è confrontato il presidente Usa Joe Biden . In questi giorni il Segretario di Stato Antony Blinken gira l’Africa per proporre una nuova partnership americana per un continente da 1,4 miliardi di persone. Se la Cina investe molto (ma poi strozza i bilanci statali con il cappio del debito), se la Russia ha l’approccio muscolar-militare incarnato dai miliziani della Wagner, la linea di Washington è per un’alleanza «flessibile» (che non prevede aut aut del tipo: o noi o i cinesi) e rispettosa, dopo quella sprezzante di Trump . In questa prospettiva, il Kenya è un tassello chiave. Poi, naturalmente, la cosa più importante è che la nuova leadership dia risposte concrete alle domande di 50 milioni di kenyani: più benessere, lavoro, una maggiore copertura sanitaria. E tanto per cominciare un voto senza spargimento di sangue: nel 2007 gli scontri post-elettorali causarono 1.400 morti. Nel 2017, le vittime sono state almeno 16. E oggi? Primo, per chi perde: riconoscere la sconfitta .

Il 9 agosto 1992 si assegnò l’oro olimpico del basket maschile ai Giochi di Barcellona. Gli Usa sconfissero la Croazia per 117-85, chiudendo il cerchio dell’operazione Dream Team . Pero Skansi, coach croato, sintetizzò il momento storico con una frase diventata celebre: «Adesso le mele sono state divise dalle pere. Noi siamo i primi delle pere ». Il solco tra il mondo Nba e il resto del basket era definito, anche se nel corso degli anni successivi il divario sarebbe stato ridotto e perfino colmato. Ma Team Usa 1992, denominato Dream Team perché era una squadra unica e probabilmente la più forte della storia del basket, aveva portato a termine la sua missione: gli americani volevano rifarsi degli smacchi che ormai incassavano con le formazioni universitarie. Lo sport moderno deve tanto al Dream Team. Ma non fu tutto oro, quello che luccicò 30 anni fa. Ecco 5 retroscena di una missione olimpica dopo la quale nulla fu come prima.

Bird, Jordan e Magic alle Olimpiadi del 1992

Imbattibili? Il cammino olimpico fu imperioso (8 larghe vittorie: Chuck Daly, il coach, non chiamò un solo time out in tutto il torneo) ma non è affatto vero che il Dream Team rimase imbattuto. Lo fu a livello ufficiale, però una partita la perse. Era il giugno del 1992, i Giochi erano ancora lontani e la squadra era in ritiro a La Jolla, luogo chic vicino a San Diego. Daly si accorse di un clima «molle» e di atteggiamenti sbagliati: così organizzò a sorpresa un’amichevole contro promettenti giovani universitarie (che di lì a poco sarebbero diventati assi della Nba: tra questi Grant Hill, Chris Webber, Penny Hardaway). La partita durò 20 minuti , Daly a suon di cambi fece di tutto perché i suoi la perdessero . E così fu: sconfitta di 8 punti, ma lo scarto era stato anche di -20. L’allenatore voleva spiegare ai suoi che pure gli dei possono cadere , però alla fine azzerò il segnapunti e ordinò che nessuno parlasse. Un segreto ben custodito per anni e anni. Finché qualcosa trapelò e lo stesso Michael Jordan ammise: «Ci distrussero». La rivincita, il giorno dopo, andò in ben altro modo: Daly aveva eliminato dalla squadra il rischio della supponenza. L’ostracismo di Jordan a Thomas Il Dream Team era la miglior selezione possibile (anche se Magic Johnson si era ritirato dopo la positività all’Hiv ed era tornato in via eccezionale, mentre Larry Bird era ormai acciaccato e a fine carriera: annunciò l’addio proprio il 9 agosto 1992), ma in realtà mancava un asso di prima grandezza. Isiah Thomas . Daly l’allenava a Detroit con i Pistons dei Bad Boys e ovviamente l’avrebbe convocato. Ma dovette rinunciare per il veto di Michael Jordan. A parte la feroce rivalità tra i Chicago Bulls di Air e i Pistons, i due non si fiutavano. Nel loro primo All Star Game, Isiah escluse Jordan dal gioco. E la vendetta arrivò: Daly dovette ripiegare su Clyde Drexler. Ancora oggi tra Thomas e Jordan volano parole acide. Malone non voleva Magic Johnson . Jordan aveva il suo scudiero – Scottie Pippen – poi a smussare gli angoli c’erano il misurato David Robinson (l’Ammiraglio dei San Antonio Spurs) e l’unico universitario, Chris Laettner, scaraventato in uno spogliatoio infernale. Ma erano piccole oasi di serenità in un contesto iper-competitivo e pronto alle scintille. Daly dovette infine gestire una situazione non facile: Karl Malone non era d’accordo che il sieropositivo Magic Johnson fosse nel gruppo. La conduzione del coach, prima che tecnica, fu all’insegna della diplomazia e della ricerca degli equilibri (qui l’articolo completo).

Quando — per la terza volta nel corso della sua esistenz a — Olivia Newton-John si era sentita dire da un medico di avere un aggressivo tumore al seno, l’attrice aveva scelto di non chiedere quale fosse la sua prospettiva di vita: «Non so quanto vivrò ancora, non ho nemmeno voluto saperlo dai dottori. Sono grata per ogni giorno che ho», aveva detto, svelando con quel suo garbo che l’aveva resa presto un’icona, che avrebbe inteso ogni giorno che le restava da lì in avanti come un regalo. Era il 2019. L’8 agosto è stato il suo ultimo.

Con il marito John Easterling: si sono sposati nel 2009 in Perù

Aveva 73 anni . «La signora Olivia Newton-John è morta pacificamente nel suo ranch nel sud della California questa mattina, circondata da familiari e amici», ha fatto sapere suo marito John Easterling, pubblicando l’annuncio sulla sua pagina Facebook (...) Il suo caro amico e grande amore sullo schermo John Travolta , legato a lei dal musical del 1978 che per entrambi aveva cambiato tutto. Nel ricordarla, Travolta è tornato ad essere quel Danny Zuko che in «Grease» (brillantina) stravedeva per lei, nonostante le arie da duro. «Mia cara Olivia — ha scritto l’attore poco dopo l’annuncio della morte della sua collega —, hai fatto così tanto per rendere le nostre vite migliori. Il tuo impatto è stato incredibile... Ti ho amato tanto. Ci rivedremo ancora lungo il cammino e saremo di nuovo uniti, di nuovo insieme. Sono sempre stato tuo dal primo momento che ti ho vista e lo sarò sempre. Il tuo Danny, il tuo John » (qui l’articolo completo).

Grazie. A domani. Cuntrastamu. Michele Farina