Tragedia senza colpevoli: cosa insegna il disastro della nave Haven - la Repubblica

2022-07-02 03:09:59 By : Ms. Helen Lv

11 aprile 1991, al largo di Genova esplode una petroliera: cinque morti, disastro ambientale e spiagge nere. Anni di indagini, ma nel 2002 la Cassazione archivia tutto

Alle 12,55 di quel maledetto giovedì di primavera un boato scuote ogni angolo del Ponente genovese. Simile ad un tuono, ma il cielo è terso, il mare di Genova liscio come l’olio. La petroliera Haven di 550mila tonnellate di stazza lorda, battente bandiera cipriota, esplode al largo di Genova, brucia per tre giorni con 220 mila tonnellate di crude oil, poi affonda. Cinque morti senza nessun colpevole, il più grande disastro ambientale del Mediterraneo, che mette alla prova i soccorsi e come gestire le emergenze.

Quel boato fa temere per i depositi petrolchimici di Pegli, all’incendio di qualche anno prima (16 maggio dell’87) alla Carmagnani con quattro morti; eppoi, la memoria va al fulmine che il 12 luglio dell’81 ha centrato la petroliera Hakuyoh Maru attraccata ai pontili del Porto Petroli di Multedo, con sei morti (quattro uomini d’equipaggio, un tecnico della Snam ed un guardiano di bordo).

La mattina dell’11 aprile del 1991 la storia si ripete, come le note del Bolero di Ravel: seppure con un semitono inferiore o superiore. La sera prima a Livorno la collisione tra il traghetto Moby Prince e la motonave Agip Abruzzo: 140 morti un solo sopravvissuto. Il giorno prima la Haven era stata spostata perché ritenuta a rischio, perciò allontanata dal Porto Petroli: si surriscaldava una pompa di travaso delle cisterne, gonfie di greggio. Venti secondi dopo il boato, dal terrazzo di casa, sulle alture di Pegli, si vede appena un filo di fumo che sale dalla prua della nave ancorata a circa due miglia dalla diga foranea di Voltri (il porto non esisteva ancora). I vigili del fuoco di Multedo, al telefono, confermano l’esplosione. Scattano i soccorsi e in poco meno di cinque minuti dai pontili del Porto Petroli salpano le prime pilotine. 

Gli uomini che vanno per mare dicono che una nave (qualsiasi natante) che cambia nome sarà perseguitata dalla malasorte. Il destino infame della Amoco Mildoford, varata nel 1973 a Cadiz, inizia il 23 marzo del 1988, ribattezzata Haven: quando è centrata da un missile, durante il conflitto bellico nel Golfo Persico. Gli armatori della Trodos (la compagna greca) fanno trainare la petroliera fino ai cantieri Keppler di Singapore, a cui affidano le riparazioni. Panagiotis Toumbaniaris, ufficiale di macchina della Haven, viene incaricato di seguire i lavori. Anni dopo racconterà ai magistrati di Genova che “tutto era stato fatto al risparmio”. Appalti “spezzatino” e materiali di bassa qualità: “Le valvole che sul mercato costavano 1500 dollari ciascuna, a Singapore le abbiamo pagate 70; ci siamo accorti durante la navigazione che le sfere dei cuscinetti nelle pompe non erano di fabbricazione svedese, ma cinese; i danni alla chiglia erano così forti che sono state sostituite 2500 tonnellate di lamiera, ma di scarsa qualità”. Il vice comandante Lolis rincara la dose: “Abbiamo scoperto che il circuito che porta gas di scarico inerte dai motori alle cisterne per sostituire quello esplosivo che si forma dal petrolio, era invertito. Così il gas delle cisterne, infiammabile, arrivava nelle caldaie. Potevamo saltare in aria in qualunque momento”.    

La Haven aveva diverse navi gemelle e tutte hanno fatto la stessa fine: la Amoco Cadiz affondata il 16 marzo del 1958 di fronte le coste bretoni, perdendo in mare 130mila tonnellate di petrolio; la Maria Alejandra esplosa l’11 marzo del 1980 nel mare prospiciente la Mauritania; la Mycene esplosa anche questa il 3 aprile del 1980 di fronte alle coste della Sierra Leone.

Il nuovo “battesimo del mare” per la petroliera rifatta è l’unico ed ultimo viaggio verso l’Italia con 35 uomini di equipaggio e 220 tonnellate di crude oil. La nave dagli Emirati Arabi parte per Genova la mattina dell’8 marzo del 1991. «Ma già durante il viaggio abbiamo avuto problemi, informando l'armatore», dichiarò al cronista Donato Lolis, il primo ufficiale (il vice comandante), subito dopo l'affondamento e il salvataggio, seduto sul letto del reparto di Medicina dell’ospedale San Carlo di Voltri.  E il racconto è nitido. Un mese di navigazione e la petroliera attracca ai pontili di Multedo, dove scarica solo 80 tonnellate di greggio. Viene stoppata. Quella pompa di travaso che non funzionava, costringe la Trodos, la compagnia armatoriale, a spedire tre tecnici greci in Italia. Salgono a bordo della Haven la mattina del 10 aprile del '91. La Capitaneria e i vertici del terminale petrolifero, in attesa che siano completati i lavori, a sera decidono di allontanare la nave da Multedo. Va all’ancora al largo di Voltri. L' indomani la petroliera esplode, proprio durante le operazioni di travaso dalla cisterna numero uno alla numero quattro. L’equipaggio si getta in mare. Non tutti ci riescono. Il comandante Petrus Grigokakis cerca di recuperare dei documenti dal suo ufficio: “L’ho visto davanti alla porta, poi è scomparso”, racconterà Lolis. Cinque vittime: il comandante, un tecnico greco e tre marinai filippini.

“Quel giorno il lavoro nel pronto soccorso dell’ospedale San Carlo di Voltri si svolgeva in modo intenso, ma routinario: soliti incidenti del traffico, malori vari ed altro - ricorda Paolo Cremonesi, all’epoca medico condiviso tra i reparti di Medicina Generale e pronto soccorso -. Poco prima delle 13 ricevemmo varie telefonate dalla Croce Rossa di Voltri, dalla Croce Verde di Pegli, dai vigili del fuoco e da qualcuno del porto che ci informavano di un grave scoppio con incendio a bordo di una petroliera al largo di Voltri con probabili ma imprecisato numero di feriti”. Non esisteva l’automedica, tantomeno la centrale del 118. Racconta ancora Cremonesi: “Allora ci siamo mossi su due fronti: quello esterno con invio, tramite un’autoambulanza della Cri Voltri, di un’equipe sanitaria (medico ed infermiere) a Multedo per imbarcarsi su una motovedetta e soccorrere eventuali naufraghi; poi quello interno per accogliere e trattare i feriti in pronto soccorso, con reperimento di posti letto per eventuali ricoveri. Si decise di liberare un’ala del reparto di Ginecologia ed identificare locali docce per la decontaminazione, preparare indumenti da dare ai possibili ricoverati. Forse per Genova e per la Liguria è stato il primo evento che ha promosso la forte necessità di creare ed avere un sistema territoriale di soccorso ed una centrale di coordinamento sul modello del 9-1-1 americano”. “Con le autoambulanze arrivarono a Voltri, in quanto pronto soccorso più vicino, un certo numero di pazienti (credo di ricordare tra 12 e 15) - dice ancora l’attuale direttore del pronto soccorso del Galliera -. Con allora iniziai a proporre un modello di soccorso integrato, dove occorreva una centrale di soccorso pubblica (il 118 in Italia iniziava ad essere un’idea) e l’intervento sul territorio: in casa, per strada, in fabbrica. Era ospedale che metteva le ruote, andando sul luogo dell’evento, diminuiva i tempi di medicalizzazione, poteva trattare in loco i casi più gravi, stabilizzarli, iniziare le terapie ed accompagnarli in modo assistito e monitorizzato nell’ospedale più opportuno per trattare al meglio una certa patologia. Occorreva pensare anche ad un elisoccorso dei vigili del fuoco. Questa azione di pressing sull’opinione pubblica e sui politici ha portato soltanto agli inizi del 1994 ad attivare la prima automedica pubblica nella provincia di Genova. Un incidente drammatico con 5 marittimi deceduti (tra cui il comandante) e altri feriti è stato quindi il momento per valorizzazione l’importanza di una buona organizzazione extra-ospedaliera ed intra-ospedaliera dei soccorsi in caso di evento calamitoso. L’anno successivo (27 marzo 1992) furono pubblicate le linee guida nazionali riguardanti proprio l’organizzazione ospedaliera e territoriale del soccorso sanitario in Italia”.

In fiamme, la motonave viene trainata al largo di Arenzano, a tre miglia dalla costa. Dove brucerà, nonostante l’impari lavoro dei vigili del fuoco, e vomiterà greggio a grumi per tre giorni e tre notti. Il cielo sopra il Ponente di Genova si colora di grigio, dalla Haven si alza un’enorme colonna di fumo nero, che assume la forma di un fungo simile a quello fotografato ad Hiroshima. Con i rimorchiatori si tenta di trainarla e portarla ancora più al largo, per limitare i danni sulla costa, ma lo scafo in fiamme si spezza in due. Proprio nel punto in cui aveva subito i lavori di riparazione alla chiglia. Il 14 aprile era una domenica: la Domenica delle Palme. Su “Il Lavoro” (diventerà Repubblica il 22 settembre del ’92), un collega giornalista dopo il sabato delle fiamme scrive, con tristezza, un articolo dal titolo “La Domenica delle Chiazze”. Il litorale davanti a Genova è inondato da migliaia di tonnellate di catrame. La costa, da Arenzano a Ventimiglia, disseminata di chiazze di bitume. Quel giorno, alle 10,05, dopo 70 ore di fuoco, il “mostro annerito”, ormai piegato in due, affonda, adagiandosi nel suo letto eterno, a 60 metri di profondità. 

Quattro giorni dopo sul relitto viene agganciata una boa rossa, a due chilometri dalla costa di Arenzano. Nel pomeriggio del 18 aprile l’ammiraglio Antonio Alati, dal VI Governo Andreotti nominato alla guida delle operazioni di recupero del greggio e di bonifica, afferma che la maggior parte di idrocarburo è bruciato e soltanto una quantità oscillante tra le 20mila e le 30mila tonnellate sarebbe rimasta nel ventre della Haven.   I numeri in futuro saranno tutt’altro: in tre giorni liberate nell’ambiente 140mila tonnellate di idrocarburi. All’interno del relitto ne rimasero 102 tonnellate (19% di greggio degradato, 44% di nafta, 23% di gasolio, 14% di oli lubrificanti). Fu il più grande e grave disastro ambientale del Mediterraneo. La stampa tedesca (Der Spiegel e gli altri giornali popolari) dà per moribonda l’estate italiana del ’91 e la riviera ligure, dissuadendo apertamente migliaia di turisti. Dall’Alta Toscana all’Elba, da Sarzana a Ventimiglia ed alla Costa Azzurra è uno scenario di catastrofe senza rimedio: l’onda nera e la melma inquinante riversate sulla costa soprattutto a Ponente di Arenzano, fino alla Francia. “La Domenica delle Chiazze”. Dall’indomani centinaia di militari inviati in Liguria e migliaia di volontari tentano di ripulire il tratto più colpito, tra Cogoleto, Varazze e Celle Ligure. E’ l’estate nera per la Liguria: stabilimenti balneari semideserti, ristoranti, bar e discoteche vuoti, pescherecci che issano reti e pesci pieni di catrame. 

Il governo mette sul piatto 100miliardi di vecchie lire: per ripulire il mare, i litorali e recuperare lo scafo della Haven. Un piano da realizzare in tandem Iri-Eni, con una task force composta da membri dei ministeri dell’Ambiente, della Difesa, dell’Interno, della Marina Mercantile e della Protezione Civile. Tempo 50 giorni. Non sarà così. Il 23 agosto del 2005 parte l’ultima fase di bonifica per aspirare i prodotti dal cassero di poppa della nave: attraverso cinque milioni di euro messi a disposizione dalla Regione Liguria, finanziati però dallo Stato. Concluse nel 1998 le controversie giudiziarie per il risarcimento, l’armatore e gli assicuratori hanno versato allo Stato circa 61milioni di euro. Ma diciassette anni dopo il disastro, nel 2008, l’incubo non si è dissolto. “Tutti i danni ambientali sono tutt’altro che risolti – afferma Maurizio Wurtz, biologo e docente all’università di Genova, titolare di studi sui cetacei – Sappiamo ancora poco degli effetti prodotti sull’ecosistema dall’enorme quantità di idrocarburi, e non solo nel Mar Ligure”. L’Icram (Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e Tecnologica Applicata al Mare) in quegli anni studia questi aspetti. Eppure, il 12 giugno 2008 terminano le operazioni di bonifica.

La Procura di Genova già lo stesso giorno dell’esplosione apre un’inchiesta per omicidio colposo plurimo e inquinamento, affidandola al pm Luigi Cavadini Lenuzza. Nel registro degli indagati finiscono i due armatori della Haven, Lukas e Stelios Haji (padre e figlio) e Cristos Dovles, ex direttore dei lavori di riparazione della petroliera. Il magistrato per tre giorni torchia i 31 naufraghi. Soprattutto Lolis e Panagiotis che hanno già parlato sulle pagine de “Il Lavoro”. Si racconta la storia di Singapore, delle riparazioni, delle valvole, del cuscinetto della pompa che si surriscaldava. Mesi dopo i due vengono “agganciati” all’aeroporto di Genova, mentre scendono dall’aereo che da Atene li ha portati in Italia per testimoniare. Raccontano al giovane cronista di essere stati contattati da un avvocato genovese, che ha offerto un miliardo di lire: per tacere. Nel fascicolo penale si aggiunge la tentata estorsione. 

Il 22 novembre ‘97 la sentenza di primo grado della Seconda Sezione Penale proscioglie gli imputati. Il più grave caso di inquinamento del Mediterraneo non ha colpevoli. Inoltre, la corte dichiara il “non luogo a procedere” per le richieste di risarcimento avanzate dalla parti civili. L’11 marzo del 2000, in secondo grado (la Procura Generale ha fatto ricorso) la storia si ripete. Assoluzione piena. A leggere le motivazioni della Corte di Appello, sono state determinanti le deposizioni dei due testimoni-chiave: Lolis e Toumpaniaris. Messi sotto accusa dai giudici, considerati “poco credibili”. «Toumpaniaris in particolare, in ragione del suo accanimento, del suo manifesto malanimo verso gli armatori e gli alti dirigenti della Trodos...», nonché di Lolis, «un teste in una posizione di marcato antagonismo con gli imputati, nei cui confronti ha iniziato in Grecia una causa civile per crediti vari...”. Il 19 aprile del 2002 la Cassazione mette fine all’intera vicenda giudiziaria: non accoglie il ricorso presentato dalla Procura Generale di Genova. Il caso è chiuso: cinque morti, le vittime del sinistro a cui non fu possibile dare neppure sepoltura, sono dunque senza colpevoli.